In un mondo dominato dal fast fashion, ovvero da produzioni di massa altamente inquinanti portate a termine a ritmi disumani, l’approccio sostenibile di pochi rappresenta la speranza di molti che, ogni giorno, combattono per vivere in un mondo più etico e in un ambiente più sano. Da piccole realtà artigianali a più strutturate PMI, i dati oggi dichiarano l’esistenza di circa 100.000 aziende slow fashion in Italia, di cui però solo 18 sono certificate B Corp (certificazione rilasciata dall’ente no profit statunitense B Lab in presenza di elevati standard di sostenibilità sociale ed ambientale). Fare un passo indietro diventa allora fondamentale: analizzare da vicino il momento esatto in cui il fast fashion è entrato a far parte delle nostre vite e in che modo ha iniziato a danneggiare prima noi e poi il nostro ambiente, ci permette di comprendere a fondo il motivo per cui, ora, un rapido cambio di direzione verso lo slow fashion è non solo possibile, ma necessario.
Fast fashion VS slow fashion: qual è il lato oscuro della moda
Quotidianamente sulla bocca di tutti, le espressioni fast fashion e slow fashion, letteralmente moda veloce e moda lenta, rappresentano oggi due lati opposti dell’acclamato mondo della moda internazionale. Nato negli anni ‘80 il primo e nei più recenti anni 2000 il secondo, i due termini si riferiscono a modelli di produzione con impatti economici, sociali ed ambientali completamente opposti, figli di tempi, conoscenze e necessità diverse.
I problemi del fast fashion, la moda che corre veloce
Utilizzata per la prima volta nel 1989 in occasione dell’apertura a New York di un negozio Zara, oggi uno dei massimi esponenti di moda veloce, l’espressione fast fashion rappresenta la trentennale tendenza della moda a produrre sempre più rapidamente capi di tendenza di scarsa qualità per accontentare quell’enorme fetta di mercato abituata alla disponibilità immediata che è, negli anni, diventata vittima o complice di un sistema che oggi può e deve cambiare. Velocità di produzione che è in realtà solo il primo degli innumerevoli problemi che porta con sé l’industria di quella moda definita, appunto, veloce. Perché produzione rapida è sinonimo di prezzi bassi, qualità scarsa, ciclo di vita breve; le conseguenze dirette, purtroppo, di un’etica inesistente e di un impatto ambientale eccessivamente elevato.
Produrre e acquistare fast fashion, nel 2025, significa abbracciare un sistema che ha un costo solo apparentemente basso da pagare. Dietro al lancio di 50 collezioni all’anno e a capi venduti a pochi euro, c’è un’industria tessile che, ogni anno, contribuisce a circa il 10% delle emissioni globali di CO2, con una richiesta di risorse idriche, un abuso di materiali altamente inquinanti e una sovrapproduzione di capi prima e di rifiuti poi che il pianeta stenta a sostenere. Industria tessile che, oltretutto, sfrutta la manodopera di paesi in via di sviluppo, dove miliardi di persone sono costrette a lavorare ininterrottamente in condizioni e a ritmi disumani, per salari irrisori. Tutti dati questi che, oggi, non devono più essere ignorati. Dati legati alla promozione e allo sviluppo di una cultura, quella dell’usa e getta e del consumismo sfrenato, che ha negli anni colpito tutti noi ma che fortunatamente, alcune aziende di moda stanno cercando di ribaltare attraverso un impegno costante a favore della sostenibilità.
Lo slow fashion: perché lento è sinonimo di sostenibile
Un bagliore di speranza, in questi anni di consumismo smisurato, è arrivato dai piccoli e grandi brand che hanno deciso di allontanarsi dalle comuni dinamiche di mercato e di distinguersi piuttosto per il proprio approccio sostenibile ed etico alla moda; un approccio che recupera tecniche di confezionamento artigianali e metodi di produzione lenti e rispettosi dell’ambiente e delle persone. In queste realtà, l’artigianalità diventa il focus di una moda rallentata, dove la qualità del lavoro supera di gran lunga la quantità, di risorse e di capi prodotti. Un approccio, questo, che fu definito slow nel 2007, quando Kate Fletcher, membro del Centre for Sustainable Fashion, intravide la necessità di rallentare il settore moda e coniò un’espressione, slow fashion appunto, che potesse rappresentare un cambiamento di direzione dall’allora già noto fast fashion e, soprattutto, una maggiore consapevolezza, da parte di produttori e consumatori, dell’impatto ambientale e umano di ogni capo prodotto.
Oggi lo slow fashion si oppone radicalmente al fast fashion, proponendo pochi capi l’anno, realizzati con materiali di altissima qualità e tecniche di confezionamento artigianali che, nonostante abbiano apparentemente un prezzo più elevato da pagare, sono pensati per durare nel tempo ed hanno un impatto ambientale estremamente ridotto rispetto alle più diffuse produzioni di fast fashion. L’obiettivo è quello di frenare l’ormai eccessivo consumismo di massa e di educare e spingere produttori e consumatori a soffermarsi sulla sostenibilità o meno delle proprie azioni quotidiane. Per essere effettivamente sostenibile, infatti, un acquisto deve riflettere una produzione che deve a sua volta:
- avvenire nel pieno rispetto dei diritti dei lavoratori, ai quali non possono non essere riconosciuti salari equi e garantite condizioni di lavoro sicure;
- essere trasparente lungo tutta la filiera produttiva;
- fare uso esclusivo di fibre naturali o riciclate, eliminando o riducendo al minimo eventuali sostanze chimiche nocive;
- creare capi evergreen di alta qualità, che durino nel tempo senza mai diventare “fuori moda”;
- essere artigianale e, possibilmente, locale per ridurre l’inquinamento causato dai trasporti ed evitare inutili sovrapproduzioni;
- incoraggiare l’acquisto di quantità minori di capi, privilegiando la qualità;
- promuovere un’attitudine alla riparazione, al riuso e all’upcycling;
- ridurre sprechi e impatto ambientale, utilizzando tecniche di lavorazione e metodi di distribuzione etici e sostenibili;
- prediligere filati certificati, per avere la garanzia che rispettino gli standard ambientali, sociali ed etici.
In un settore in cui, ogni anno, miliardi di capi vengono lanciati sul mercato a prezzi irrisori, giustificati da materiali scadenti e condizioni di lavoro disumane, il movimento slow rimette al centro l’ambiente e le persone, attraverso la voce di brand che, smettendo di ignorare, hanno iniziato a fare davvero la differenza.